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LA MEMORIA RENDE LIBERI

 LE RECENSIONI DEI RAGAZZI

a cura di Valentina Filippeddu

Si avvicina come ogni anno il 27 gennaio, giorno della memoria, giorno in cui vogliamo ricordare le atrocità subite dagli ebrei durante la seconda guerra mondiale. E allora chi, meglio di una dei sopravvissuti, potrebbe raccontarci nel dettaglio la sua storia? “La memoria rende liberi” è un libro scritto da Enrico Mentana e Liliana Segre, in cui l’autrice mette su carta la sua terribile esperienza. La testimonianza raccontata in questo libro inizia proprio dall’infanzia della Segre, orfana di madre, che viveva a Milano con la sua famiglia di ebrei laici. La sua religione non le aveva mai causato alcun ostacolo, fino a quando, nell’estate del 1938,  la sua vita ebbe un’importante svolta nel momento in cui ella apprese la notizia delle restrizioni messe in atto contro gli ebrei. Espulsa da scuola e privata di numerose libertà, alla Segre non rimase che accettare la proposta di sua zia Enrica di ricevere il battesimo e frequentare l’istituto cattolico delle Marcelline. Dopo un breve periodo di frequentazione però i suoi studi furono nuovamente interrotti dall’inizio della Seconda Guerra Mondiale e nel ’42 la sua famiglia fu costretta a lasciare Milano per dirigersi ad Inverigo. Non molto tempo dopo l’Italia settentrionale fu posta sotto il controllo del Reich, che immediatamente cominciò la deportazione degli Ebrei verso Est. Per portare in salvo la figlia, il padre Alberto la affidò al il signor Pozzi, che la portò in salvo in un paesino in provincia di Lecce. Da qui si spostò nuovamente per andare a Castellanza dove rimasero finché il padre non decise di fuggire in Svizzera con la piccola Liliana. La loro fuga però fallì e i due furono arrestati e tradotti nel carcere di Milano. La mattina del 30 gennaio del 1944 iniziò il loro lungo viaggio verso il campo di concentramento di  Birkenau, conclusosi soltanto il 6 febbraio. Una volta arrivata Liliana fu separata dal padre, che fu ucciso poco tempo dopo. Per la Segre, non conoscendo alcuna lingua straniera, era difficile comunicare con gli altri prigionieri ma nonostante ciò, strinse amicizia con due ragazze italiane sue compagne di prigionia al campo, le sorelle Laura e Luciana. Le condizioni di vita in quel posto erano a dir poco terribili: a tutte le prigioniere furono tagliati i capelli e vennero fatte indossare una camicia e dei pantaloni a strisce. Venivano svegliate la mattina dalle guardie che con un bastone colpivano i letti dei detenuti, che poi si recavano ai lavori forzati all’esterno del campo o nelle fabbriche. Liliana fu mandata a lavorare in una fabbrica di munizioni, la Weichsel-Union-Metallwerke. A fine Novembre del 1944 le operaie della Union furono trasferite dal campo di Birkenau al lager di Auschwitz, da dove ebbe inizio il 20 gennaio la Marcia della morte del 1945. Lasciandosi il lager alle spalle, i tedeschi iniziarono a far saltare in aria le strutture del campo poco prima dell’arrivo dell’Armata Rossa. I detenuti erano costretti a fare i bisogni per strada, avevano il volto ricoperto dalla sporcizia, si nutrivano nei letamai. Per un certo lasso di tempo dovettero fermarsi al campo di Ravensbruck, dove, però, non lavoravano e mangiavo poco o nulla. All’inizio di Aprile giunsero al campo di Malchow e poco dopo, il 25 aprile 1945, le truppe americane e russe arrivarono nei pressi della cittadina costringendo i tedeschi a sgomberare il campo. I fuggitivi incontrarono durante il loro cammino gli americani, che lanciarono loro cibo e viveri. Una volta liberata, Liliana decise, insieme ad altri sopravvissuti, di partire verso il campo di Ludwigslust, allestito dagli gli americani con una mensa e un ospedale. Per quattro mesi visse in una località sul fiume Elba insieme agli altri deportati italiani, finché non furono rimpatriati verso la fine di agosto. Arrivata a Milano con la sua amica Graziella tornò nel palazzo dove aveva abitato con la sua famiglia e dopo un po’ di tempo la sua vita tornò alla normalità, anche se il ricordo delle esperienze passate lasegnò per sempre la sua esistenza. Si trasferì a casa degli zii a Milano, riprendendo inoltre gli studi. Nel 1948 conobbe a Pesaro Alfredo Belli Paci, anch’egli un ex detenuto nei  campi di concentramento con cui si sposò nel 1951 ed ebbe tre figli. Liliana Segre, è oggi una donna che ha trovato la forza per raccontare la sua esperienza, perché una tragedia del genere non si cancelli dalla mente di nessun uomo e ci renda consapevoli del male che l’indifferenza può causare. 

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